Alba (più o meno) in fortezza ad aspettare che apra. Il paese è incantevole, silenzioso e ancora assonnato. Esploriamo il posto veneziano, chiese e segni ancora di edifici militari. Restauri forse un po’ affrettati, ma la vista che disegnano le mura è da mozzare il respiro. Non mi stanco di gettare lo sguardo in quel mare che s’apre verso il nostro obiettivo, Gambousa, Grabusa o Granbusa per i veneziani, l’ultimo scoglio della Serenissima.
Torniamo dopo uno stand up finalmente breve (solo 4 prove) e col caldo che inizia a mordere. Ci accoglie la delegazione al gran completo del comune di Khitera: il sindaco Thodoros Koukoullis (un signore distinto con occhiali e baffetto, che parla un buon inglese ed è innamorato della sua terra), il vice Nikolaos Megalokonomos, il presidente del consiglio Lazaros Vezos. Il lavoro di Marco Polo System e il tam tam della rete hanno acceso molto interesse in questi lidi per la nostra avventura. Un giornalista locale, fotografa l’incontro, ma anche a Creta già si parla di noi su stampa e tv. Noi però siamo alle prese con l’ora e l’adesso, sempre poco tempo e molto da registrare, capire, documentare. E’ quasi un impegno morale nei confronti di gente e luoghi che ci rapiscono, vogliamo raccontarli al meglio, trasmettere l’entusiasmo che ci danno. “Khitera era un altro occhio della Repubblica, grazie a Venezia è arrivata la cultura e la prosperità – racconta il sindaco – moltissimo ci lega ancora a voi, anche nella vita di ogni giorno, nella cucina (c’è un pasticcio alla veneziana che cucinano solo le nostre donne, in casa, non è cosa per turisti) e nelle parole che utilizziamo ogni giorno . La vita è ancora serena, anche se è ogni giorno più difficile. Amministrare 66 villaggi sparsi per un territorio grande come Malta non è facile, e Atene ci ha tagliato i fondi alla metà. E dobbiamo amministrare anche Anti Khitera, 30 abitanti, l’isoletta qui vicino. Ma ce la faremo a superare anche questa”. Ci regalano una medaglia ricordo e una storia su Afrodite un po’ … partigiana: “Qui è nata la dea, celeste e urania”, fa il sindaco facendo intendere che era ancora illibata.”Poi è andata a Cipro e per mare ed è diventata di tutti”. E ha fatto bene a molti.
Dopo l’incontro ufficiale rompete le righe con bagno da ricordare e nuotata fino al canyon sotto la fortezza, spiaggia di ciottoli a scaldarti le membra stanche. Il ritorno è duro, ma in barca c’è una sorpresa: ci è venuto a trovare Byron Da Ponte, 85 anni, l’ultimo erede di una famiglia di serenissima schiatta: “Noi facevamo i ponti di Venezia, da questo lavoro deriva il nostro nome. Qui ci stabilimmo secoli fa – spiega questo signore distinto ed energico che sale in barca di slancio e racconta in un italiano forbito e appena toccato dall’accento greco – e anche nelle isole e a Creta. Vantiamo un doge, Antonio, eletto alla metà del 1500. Vedi questo è il suo simbolo”. Uno scudo con un ponte in rilievo che ritroveremo anche a Grambusa. Byron racconta, sembra un’enciclopedia vivente.
La sua memoria affonda e risale nei secoli quasi seguendo la vitalità che nel pomeriggio ci porterà a scoprire con lui un altro gioiello veneziano di Cerigo, il castello di Mesopotamos, che sta in un borgo antico quasi al centro dell’isola perso tra ulivi e cicale. Un leone orgoglioso sormonta l’entrata del forte che in alcuni punti ha le mura incorporate da case. Sotto stanno due stemmi, si dice del signore franco che sposò una dama veneziana dando il La alla presenza serenissima. I numeri romani riportano una data: 1515. “I miei compatrioti di qui, quando la Repubblica cadde nel 1797, erano pronti a ospitare il governo veneziano in esilio, le sette isole dello Ionio potevano servire da riscossa contro gli invasori francesi, in molti si ribellarono a quella fine ingloriosa e qui i francesi non vennero mai come i turchi. Gli inglesi sì, fummo loro protettorato per anni, fino all’indipendenza nel 1864″.
Byron prima ci aveva portato a casa sua a Chora, scaletta e atrio sfolgorante di fiori, una piccola chiesa a impreziosirlo, a vedere lo scudo di marco di famiglia in fregio. Poi la galoppata con la sua auto un po’ scassata verso questo villaggio dimenticato. Mesopotamos è un incanto e un mistero. Ma, sopratutto, un testimone di una vita dura e agreste, quella di secoli fa. “Quella è la cisterna dove si portava l’uva da pestare, e qui, in questa canaletta, scorreva il vino che andava a finire nelle botti – racconta questo gran signore che un tempo (1975) è stato anche sindaco di Cerigo, e per 12 anni – là si mettevano le bestie o c’erano i depositi degli alimenti”, svela entrando negli scheletri di queste vecchie case sorprendentemente piccole. Lui sale le scale pericolanti con agilità che ci spiazza e racconta, racconta come un aedo della sua vita, della vita di questo posto, della Venezia che vide e sogna. Un libro servirebbe solo per lui.
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