Istanbul e Venezia, due mondi che si sono sempre incrociati e che mai come oggi appaiono lontani. La Serenissima sembra lo specchio di un Vecchio Continente sempre più chiuso e ingobbito, città assediata dal turismo, che non riesce a trovare altri sbocchi alla decadenza di un Nordest in recessione.
Istanbul, la città gemellata da un lustro con Venezia, offre invece l’immagine di un Paese nuovo, di una Turchia a colori, forte, energica, orgogliosa, appagata dal suo status di membro del G20 e dal ruolo di guida in Medio Oriente. Il bianco e nero che raccontava qualche decennio fa il Nobel della letteratura Omar Pamuk si è stemperato. Allora Istanbul era la capitale di una nazione chiusa, incerta, ferita, il centro di giochi di spie e diplomazie tra Oriente e Occidente che la utilizzavano solo come sponda. Oggi vuole essere attore del nuovo mondo bipolare che si sta costruendo tra Cina e Stati Uniti, ponte sul Mediterraneo delle correnti islamiche moderate, testimone che un altro mondo è possibile, ma non come speravamo e pensavamo noi occidentali. E riemerge la diffidenza verso la nuova potenza orientale.
Ma mai come oggi c’è bisogno di coraggio, di aperture, di intrecci. E la Storia potrebbe soccorrerci rispolverando la cara e vecchia Venezia in funzione di ponte culturale andando oltre Lepanto. Non c’è muro che tenga, il Mare Nostrum è anche loro, di turchi, egiziani, libanesi, israeliani, libici. È uno spazio comune, Fernand Braudel identificò il Mediterraneo come il “continente liquido”. E Venezia può tornare protagonista di questo nuovo mondo.
Non solo per le storie intrecciate, i commerci, i ricordi. Le università veneziane di Ca’ Foscari e Viu hanno anche gettato le basi per costruire un ponte di collaborazione che possa aprire le porte del ricco mercato turco – il Paese viaggia a colpi del più 8% del Pil all’anno – alle imprese del Nordest. L’Italia è per Ankara il quarto partner commerciale e nel 2011 si è tagliato il traguardo dei 20 miliardi di dollari di interscambio. Quasi 900 aziende italiane operano in Turchia, anche in settori strategici, fornendo un significativo contributo produttivo e tecnologico alla crescita del Paese. Ora è il momento delle piccole e medie imprese, il polmone produttivo triveneto che in questo momento è un po’ col fiato corto, complice un mercato italiano sempre più sfiatato. L’unica strada per crescere è l’estero, e guardare troppo lontano – a Cina o India – potrebbe dare vertigini.
Meglio seguire vecchie rotte veneziane, quelle che nel Medioevo hanno portato i serenissimi a conquistare porti e basi commerciali fino alla Tana (Mar d’Azov, oggi Russia) passando ovviamente da Istanbul – Costantinopoli, l’Egeo, Aleppo in Siria (altra zona caldissima), Cipro, Alessandria. Rotte di commercio e di “mude” – i convogli che dal XII al XV secolo organizzava la Serenissima a sue spese per aiutare e rendere più sicuri i traffici dei mercanti veneti, e non solo – che l’associazione Venti di Cultura in collaborazione con l’associazione UnaVelaper vogliono ripercorrere per documentare quanto è rimasto di quei tempi come testimonianze architettoniche e culturali, e per aprire nuovi rapporti, stringere legami, capire dal cuore di questa grande nazione il nuovo Mediterraneo che si sta costruendo.
Il viaggio – tremila miglia tra luglio e settembre – ovviamente partirà da Venezia, in barca a vela, come un tempo partivano le galee. Un 20 metri, Moana 60, un equipaggio di amici e curiosi esploratori, che vuole navigare Sulle Ali del Leone – In viaggio verso Levante. Ma questa volta, a differenza di sei anni fa, l’obiettivo non sarà solo l’Adriatico, quel mare che guerre e sciovinismi avevano fatto diventare un muro e che oggi, grazie all’entrata in Europa della Croazia, è già un ponte. Certo, la prima tappa sarà sempre la Dalmazia, e poi arriveranno il Montenegro (candidato all’entrata nella Ue, come la rediviva Serbia) e l’Albania. A Porto Palermo, tra Valona e Saranda, dal 10 al 12 agosto la fortezza di Alì Pashà Tepelena ospiterà un festival artistico che si annuncia rivoluzionario. Dopo vent’anni dagli sbarchi di vecchie carrette e gommoni che portavano migliaia di disperati alla ricerca di libertà e benessere, questa volta saremo noi a sbarcare idee, sogni, progetti artistici.
Questa sarà solo una delle tappe di questo itinerario tra cultura, scoperta e natura. L’obiettivo principale è Istanbul, mille e passa miglia da Venezia, la porta verso Oriente che ha affascinato legioni di viaggiatori e mercanti fin dall’antichità. L’antica Costantinopoli, la seconda Roma che rivaleggiò nei racconti con un’altra città mitica, che visiteremo: Troia. Rotte leggendarie, ricche di storie, a partire da quella degli Argonauti di Giasone, che attraversò anche l’Adriatico dopo aver risalito il Danubio. Vogliamo toccare Atene, capitale della Grecia piegata dalla crisi, ma anche visitare le isole dell’Egeo, paradisi delle vacanze e un tempo di pirati anche veneziani (il Ducato di Nasso), gettare l’ancora davanti alle fortezze bizantin-veneziane-turche di Nauplia, Corinto, Corone e Modone.
Mille storie per tremila miglia, sperando che non serviranno mille e una notte per arrivarci. E chissà che l’anno prossimo non si possa andare ancora più lontano. A Trebisonda, l’odierna Trabzon. Alla fine del Mar Nero, in Crimea, alle foci del Don. Dove iniziava un altro viaggio. Quello verso il Catai.
Dove eravamo rimasti? Ah, già, gli albanesi diventeranno come noi o noi come loro? Già, ma oggi la questione è un’altra: diventeremo come i greci? Tira un vento cattivo dalle parti del Mediterraneo, come se gli spiriti si fossero ribellati al sole al cielo terso per vendicarsi di un mondo che faceva invidia, che poteva sognare e trastullarsi. Oggi sono tempi di ferro e noi possiamo solo rifugiarci nel sogno e nel ricordo. E allora dai, diventiamo tutti un po’ veneziani, quelli veri, che solcavano il mare e cercavano di capirlo, che guardavano lontano e non si perdevano (sempre) dietro al particolare. Ecco perché siamo qui: per ritrovare una rotta, una via, un futuro. E anche un po’ del nostro passato. (more…)
DA PLATARIAS A LEFKADAS (LEUCADE, SANTA MAURA ) 45 miglia - 19 luglio 2011
Partenza all’alba dopo una esplorazione del paese dei turisti persi, anime alla Gogol che non riescono neanche a pensarsi più in pista ma solo all’ammollo. Poco vento, molto motore, buono per acclimatarsi con barca ed equipaggio. La stanchezza dopo il viaggio in traghetto mi prende subito all’uscita dal porto e mi assalirà ancora a ondate, come una malia. Ma ora c’è da cominciare a veder scorrere mare e isole, a immergersi in questo mondo così vicino. L’obiettivo è Paxos, una delle due sorelle minori di Corfù, approdi di passaggio per la navigazione verso Sud ma anche posti piacevoli, non proprio assediati dal turismo anche se pare che di invasioni di questo genere non ve ne siano in atto. Sulla costa so che c’è Parga, enclave veneziana in terra ottomana come allora era l’Epiro. I veneziani la chiamavano “l’occhio e l’orecchio di Corfù”, il che la dice lunga sulla sua importanza strategica. Come Butrinto in Albania, questa piccola città con un castello di origine normanna su un promontorio roccioso e aspro faceva da sentinella alle rotte cristiane, caposaldo alla fin fine soprattutto per il contrabbando, fiorente allora quando faceva confine tra due stati malgrado i privilegi commerciali che godeva. La visitai anni fa, scoprendo qualche leone e una rocca ignorata dai turisti che la affollavano e nascosta dai pini marittimi. Rimase fedele alla Repubblica fino alla sua caduta, finì in mani francesi e inglesi, che la vendettero ad Ali Pasha Tepelena, il signore di queste terre, dall’Albania a Ioannina. Divenne greca solo nel 1913, neanche un secolo fa. Sembra impossibile che sia passato così poco, ma la nazione ellenica non ha il suo spirito, ha una storia recente, che iniziò col conte Capodistria all’alba del XVIII secolo proprio da queste isole dell’Eptaneso ionico che nella loro bandiera portavano un leone con sette frecce. Più in giù sta Preveza, altra fortezza veneziana dopo che era stata ottomana e forse bizantina o chissà cos’altro.So solo che allora, dieci anni fa, era ancora una base militare e una sua foto mi costò un paio d’ore al comando della polizia locale. Può essere una spia uno che in bragozze da spiaggia in moto e con la fidanzata si mette a sparare raffiche a delle mura vecchie di secoli?Lo so, c’erano i cartelli no photo (in greco, ma si capiva dallo sghiribizzo) ma potevano fare meno scena, mi sembrava di essere tornato in guerra dalle parti di Zara e Knin, tra parentesi altri posti veneziani fino alla fine della Repubblica.
L’alba è passata da poco e già ci si muove, chi l’avrebbe mai detto un Crema mattiniero! Ma c’è Pido che mi sfida e mi stimola, lui ogni giorno ceca di catturare la luce migliore, quella che ha fatto immortale la Grecia. Arrivo alla fortezza con lui che è giù a caccia di leoni ed esploro i bastioni conquistati da Morosini nell’ultima campagna di conquista della Serenissima in Morea, quando Venezia tentò di sentirsi ancora potenza mediterranea. Il grappolo di cannoni arrugginiti buttati a fianco del ponte d’entrata nella fortezza testimoniano bene quanto fosse folle quell’ultimo volo. Il rumore di una barca a vela mi distoglie da questi grevi pensieri, c’è un pescatore sulla sessantina pelato e con gli occhilai da ragioniere che entra nello spazio d’acqua antistante alla fortezza e ormeggia.
Questa è casa sua. Si accende una sigaretta e inizia a sfilare la rete, mossa antica, sempre uguale, imperitura e anche stanca, come questa pesca che definisce lui scarsa. Butta i pesci piccoli in mare con dispetto. La sua barca è di legno e povera, un guscio che non piuò affrontare tante altre battaglie. Più avanti, quando le mura si alzano e la baia si apre dove un tempo ospitava le galee veneziane un altro pescatore arranca verso terra, più giovane, più deciso. La moglie è venuto a prenderlo in riva, e inizia ad aiutarlo a lavorare le reti, a cercare il pesce pescato. Spunta anche il loro bimbo biondo che s’arrampica sulla cima per curiosare in barca. Il tempo già stringe, c’è Itaca da conquistare ma un bagno ci vuole. La spiaggia è fequentata da vecchi ed è di sassi, il mare affonda subito in un colore turchino che sa di magia e rinascita.
Partiamo quando il sole non brucia ancora, entriamo nel canale di Leucade, infido e stretto come un Corinto di sabbia. Sono al timone, parliamo di Saffo e mi distraggo e rischio di buttare la barca in secca come un Fantozzi qualsiasi, il capitano mi riprende e riprendiamo il trotto in quel canale che s’allunga per tre miglia nella palude salmastra tra boe di segnalazione, banchi di sabbia e moli sommersi. La collina di fronte sopra Leucade – Lefkas conserva le tracce di un’antica città micenea, la fine di questo budello è sorvegliata da una fortezza merlata che era veneziana e poi turca e prima chissà bizantina, il solito guazzabuglio delle storie che sembrano ogni volta decisive e poi sterzano senza preavviso, come un terremoto, quello che a Zante cancellò l’architettura veneziana dalla città che diede i natali a Foscolo. Who’s he? Già, chi è costui? Ma cerchiamo il vento nel mare aperto finalmente in baia e arriva, arriva. Prima da Sud Est e poi, man mano scivoliamo sotto Leucade e verso Meganisi e Skorpios, l’isola di Onassis, cambia in Maestrale. E la nostra barca inizia a galoppare quasi liberata finalmente da questo vento sui 15 – 20 nodi che monta sempre di più portandoci di volata verso Itaca, l’isola di Ulisse piena di sole e rocciosa, terra di capre. ma è la sua patria.
E’ stata una liberazione quel bordo lungo quasi un pomeriggio, quel viaggio veloce e leggero come il volo di un un gabbiano tra terre che ben presto all’orizzonte restano solo come montagne o scogli, poco più di un abbozzo sulla distesa blu del mare straniero. E’ una magia che ogni tanto si rinnova quella che stavamo vivendo, un tocco di fortuna perché è sempre il fato a governare chi vuole andar per mare col vento. E quel momento ce n’era, tanto da farci viaggiare sui 6 – 7 nodi. Unico inghippo, Frikes non ci è permessa, la raggiungeremo domani, per terra, con un umile mulo moderno, uno scooter Piaggio che alla salita più dura obbligava a smontare Pido. Nemmeno Kioni è raggiungibile, il capriccio del vento ci indirizza a Vathi, la capitale dell’isola cara ad Atena, una cittadina adagiata sulla grande baia che raggiungi solo dopo un budello nell’isola strozzata a mezzo e legata dal monte Aetos. Arriviamo col sole ancora alto e la terra leggendaria netta nel suo profilo punteggiato dai vecchi mulini che sembrano torri. L’entrata in porto dal golfo di Molo è sorvegliata anche da un bastione perso in mezzo alla sterpaglia, poco più un abbozzo che il giorno dopo scopiremmo ospitare due cannoni, uno dei quali veneziano.
E’ un leone in moeca che ne decora il fusto ancora ben conservato, alla sua destra tiene una spada, alla sinistra una croce che potrebbe essere anche un tridente da Nettuno, il grande nemico di Ulisse. Ormeggiamo davanti alla trattoria sotto il montarozzo Ketalo in una delle tante marine semi abbandonate che punteggiano le coste e le isole greche, testimonianze di una voglia di turismo che si è infranta sul concreto. Troppe illusioni dietro le ultime olimpiadi, e altrettante truffe.
DOMENICA 24 LUGLIO 2011 Gran vento da Ovest Nord Ovest poi passato a Ponente, anche più di 25 nodi, grande navigazione sopra i 7, oggi si vola tra due poeti e una barca che ha sempre più il suo perché. Arina chi era costei? Una fanciulla greca, credo. Ma questa è già un’altra storia, che arriverà alla fine di questa grande galoppata verso la terra di Ugo, who’s Ugo? Ma Foscolo, e chi altro! (more…)
L’alba è l’ora rossa della nostra mossa. Il sole sorge dietro i monti del Peloponneso mentre siamo già fuori dal porto arrugginito di Zante – Zacinto. Non fa caldo, ma, soprattutto, non c’è vento.
Motore è, e lo sarà per tutto quel lungo giorno annunciato dal disco aureo dietro il profilo incerto di Castel Tornese, sul continente a una decina di miglia. Si annuncia una giornata d’attesa, di noia, di ricordi, di nostalgie di casa, del Natale. Uno scorrere lento di ore allietate dalla lettura dell’Odissea, il canto di Telemaco che va a Pilos-Pylos per parlare col vecchio e saggio re Nestore, il prototipo della guida salda e gentile, il manifesto di una civiltà che voleva rispettati gli anziani. E che passava il tempo in ecatombi in onore degli dei, grandi mangiate di carne (il pesce ai tempi di Ulisse come di pochi decenni fa andava bene per i poveri o i naufraghi, le bistecche facevano status, come per le nostre mamme e nonne), altrettante bevute di vino mischiato ad acqua (era molto più forte del nostro, anche oggi quello cretese spara 15 gradi), giochi e danze. Era una civiltà fatta di grandi palazzi quella micenea che proprio nel Peloponneso aveva la sua capitale, imponente tutt’ora con le sue mura ciclopiche e la porta dei Leoni stranamente echeggiata solo da quella di Butrinto, in Albania, città citata nell’Eneide, non a caso, credo.
Sarà stata tutta quella carneficina modello Nestore raccontata in partenza, che in mezzo al mare, storditi dal sole e dal caldo e dal motore, la lenza si tese e spezzò la canna. Enrico, rapido come una pantera de Marghera, prese i resti e chiamò a raccolta l’equipaggio. Marco iniziò a recuperare, io non credevo, miscredente che ero. Caterina gridava: è un tonno, un tonno! Effettivamente, dopo una buona mezz’ora di manovre col timore di perdere la preda si profilò nell’acqua vicino alla barca: una bestia di una decina di chili, grigia e argentata. Marco la tira su, Il capitano la prende al raffio – il rampino tipo cacciatore di balene: il sangue nero si sparse per il gommone e il pozzetto quando viene tirato dentro. Si dibatteva la povera bestia che, ingorda, dalle profondità del mare, aveva adocchiato un pesce gustoso e trovato l’esca Rapala perfida e rutilante. L’amo gli si era conficcato in gola, fu difficile toglierlo. Si dibatteva, rivitalizzato dall’acqua del mare che ogni tanto gli tiravamo, non voleva morire, quasi a farci sentire in colpa per quella caccia fortunata. Non ci credevo ancora, un tonno vivo o quasi non l’avevo mai visto. Più che il sangue, furono gli occhi grandi e bovini a impressionarmi, una palla nera spalancata verso quel mondo che per lui era deserto, mortale. Ma non voleva morire. E allora a qualcuno venne in mente di versargli del liquore, trovammo del rum e glielo infilai in bocca. Un fremito assurdo, come da scossa elettrica lo prese e si liberò dalla presa di Enrico: sbatté la grande pinna sulla tolda e se ne andò per sempre il suo spirito. Ora c’era solo da non sprecare nulla di quella piccola ecatombe e da ringraziare la fortuna e gli dei per quel regalo dal mare. Enrico prese e iniziò a sezionarlo, togliendo prima le viscere e poi le branchie, tagliando le pinne laterali e iniziando a levargli ad accettate di coltellaccio le squame. Anche questo era un rito antico, di morte e vita. Che si concluse col taglio della testa e la selezione delle parti migliori. Due giorni ne mangiammo di quella bestia non a caso chiamata la vacca del mare. Tra tartare, padellato, bisteccato, sfamò sei persone in sontuoso banchetti (era squisito). Ma prima pulimmo la bestia e la barca di quel macello.
L’eccitazione e l’impressione per quella caccia e il resto ci aveva fatto attenti, frenetici. L’operazione era durata ore, ci sentivamo però più vivi. E quando arrivò l’isoletta di Proti col suo piccolo monastero e la scogliera e l’acqua trasparente fino al fondale dieci metri più sotto fu naturale gettare l’ancora. Ma mentre cercavamo il giusto fondale il lamento disperato di una capretta ci ricordò il sacrificio appena compiuto. Dei pastori trascinavano delle giovani bestie giù per una passerella fino a una barchetta. Quelle povere belavano disperate per timore dell’acqua, dell’ignoto, o solo per paura. Due compagne più vecchie stavano sulla scogliera a guardare ben lontane dal poter essere cacciate, sicure in cuor loro di averla scampata. I pescatori riuscirono a completare l’opera e ci salutarono. Noi ricambiammo e trovammo un ancoraggio buono e un tuffo ancora migliore. Poi riprendemmo a navigare verso Pilos e la costa del Peloponneso, che ormai distava poco, una decina di miglia, e s’annunciò con un vecchio castello in cima a una scogliera che fu franco e poi veneziano.
Degli stupendi faraglioni rotti solo da un arco naturale fermavano il mare proteggendo la grande baia di Navarino dove la Grecia nel 1827 divenne indipendente grazie alla distruzione di una flotta turca da parte delle potenze amiche di Francia, Gran Bretagna e Russia. Doppiata l’isoletta di Sfatkiria, si stagliò la superba fortezza nuova, di pianta decisa, dominata da un bastione e da una chiesa che fu moschea. Qui Venezia arrivò nel 1685 e restò per soli trent’anni, una parentesi tra secoli di dominazione ottomana. La cittadina si apre subito dopo attorno a una grande piazza quadrata dominata da platani centenari (i greci amano le piante perché portano ombra, non come noi che le tagliamo come intralcio alla modernità) e circondata da palazzi sobri e con qualche tocco elegante. Tutt’altra storia rispetto a Zante. Peccato che la marina sia ancora abbandonata a metà, senza servizi. Ma va bene così, un buon approdo per i pellegrini del mare. E ne scoprimmo diversi all’ormeggio gratuito da chissà quanto tempo, barche disarmate per armatori squattrinati. Persi. Dimenticati. Il giorno dopo avremmo scoperto un nuovo slogan: kali kratis, buon governo. Tradotto: tagli ai comuni e fondi per risparmiare e far contenta l’Europa. Virtuosi e con le tasche vuote. Come quei marinai persi a Pilos, anche la Grecia s’era ormeggiata a Bruxelles sperando di non affondare.
“Ci hanno detto che dovevamo risparmiare e abbiamo fuso diversi comuni, ora Pylos è la capitale di tutta quest’area che comprende anche Methoni e Koroni, in pratica siamo passati da tremila a 21mila abitanti. Ma non abbiamo licenziato nessuno, solo spostato un po’ di impiegati qui in città e mantenuto aperti gli uffici decentrati. Questo è kali kratis, il buon governo di Papandreu, uno che di socialista non ha più niente”. Constantino Neratzoglou ha 58 anni, un passato da chimico in Cina e un presente da presidente della municipalità di Pylos – Nestor, una delle “creazioni” post crisi e pre default greco, uno di quei contentini fatti per ingraziarsi la Bce e l’Europa per far vedere che Atene e il resto dell’Ellade si stava ravvedendo imboccato il sentiero pietroso verso la virtù di bilancio. In pratica, hanno azzerato dei comuni senza ovviamente licenziare nessuno e moltiplicato le poltrone: ora c’è un sindaco per posto, in più un presidente di municipalità e via così. Insomma, siamo in piena tragicommedia. “Arriviamo all’assurdo che l’auto del nostro sindaco non può superare la cerchia del nuovo comune, l’autista deve chiedere l’autorizzazione alla prefettura del Peloponneso per poter uscire dai nostri confini”, sorride amaro Constantino, capelli bianchi, corpulento e faccia aperta quasi senza rughe: “Ora la parola d’ordine è questo buon governo, ma come si fa a risparmiare, qui siamo in Grecia! – dice Constantino ricevendoci in delegazione grazie all’interessamento del Marco Polo System e del suo leader Piero Pettenò – le tasse non bastano per gestire i servizi pubblici e entro fine anno Atene ha chiesto a tutti i Comuni della Grecia di versare 500 milioni allo stato”. Dopo il taglio degli stipendi del 10% e delle pensioni, la chiusura dei comuni, ora si è arrivati ai prestiti forzosi. Non vorrei che anche a Roma prendessero esempio dalla Grecia: una faccia, una razza di pasticcioni o peggio. “Siamo falliti e non lo sappiamo ancora – dice il presidente municipale che è iscritto a Nuova Democrazia, la destra greca – ti svegli e non sai i soldi che prenderai di stipendio”. Questo è il quadro, e l’autunno sarà caldo: “Le proteste riprenderanno, oggi in piazza ci sono solo i taxisti, che sono contro la liberalizzazione delle licenze. Ma a settembre tornerà la protesta di piazza, il popolo non ce la fa più”. E maledisce i potenti alla sua maniera, con la moutsa, la mossa: mani aperte spinte verso il nemico, andate via, ta’ morti i cani.
In piazza la gente anima i bar, sorseggiando caffè e ouzu cercando riparo al sole implacabile. Ci si accontenta di poco in questo paesino ai confini del Peloponneso che vive sulla storia – la fortezza possente, la battaglia navale, il palazzo miceneo – in attesa di un boom turistico. In mattinata avevamo tentato uno stand up di fronte alle mura: trenta volte l’ho fatto, alla fine Pido era esausto e scoraggiato. Non sono fatto per la tv. Spero solo che venga cancellato, oppure accelerato tipo “le comiche”, almeno si sdrammatizza il mio fallimento. E’ che mi sembra di essere come quei giornalisti da tg, prima le loro facce della notizia. E la mia, di prima mattina, non è di certo il massimo dell’efficacia, soprattutto dopo 200 miglia in barca a vela e una sventolata di sole.
Constantino e il vice sindaco del comune di Nestore Pericles Kontogonis ci hanno organizzato un piccolo bus per visitare i due occhi della Repubblica, i castelli che per trecento anni hanno sorvegliato i traffici della Serenissima verso Creta: Modone e Corone. Due bastioni superbi, ingentiliti da una torre turca in mezzo al golfo di Methoni e da paesini ancora veraci. La cartolina sta dall’altra parte.
Ci tuffammo su Modone – Methoni al classico orario dei pirla, ore 12, sole a picco e gola riarsa. Ma era scattata la caccia al Leon. E ne trovammo diversi in quella fortezza secolare che si protende nel mare. Ce n’era uno con le ali spiegate, uno rampante, l’altro smozzicato e vecchio di 600 anni, un altro a giganteggiare sul bastione marino verso ovest, uno sopra una delle tante torri che spuntano sull’acqua del porto delle galee. Una meraviglia.
Corone – Koroni invece è più massiccio, le sue torri sorgono dal mare come scogli e le mura corrono sopra il paese e custodiscono un monastero di suore gentili che ci raccontano anche la leggenda della campana miracolosa regalata da San Giovanni. Vivono in cima alla rocca, tra un cimitero di croci bianche, fiori accesi e piante da frutto. Un piccolo paradiso di serenità e di refrigerio in mezzo a un caldo senza respiro. Salvarono me e il Pido da un’insolazione, regalandoci preziosi bicchieri di acqua fresca e anche una chiacchierata con due persone squisite: Dimitrios Kiriazis, presidente della locale associazione culturale, e Antonio Sarli, insegnate in pensione di Brindisi Montagna, provincia di Potenza: “Siamo gemellati con Koroni, quando i turchi conquistarono la città nella metà del 1500 una parte dei suoi abitanti si rifugiò in Basilicata, anche nel mio paese”, racconta, facendoci poi da traduttore con Dimitrios, che ci racconta la storia del castello. “Il legame con Venezia è antico, è sempre stata custode della nostra libertà – racconta – portando sviluppo e ricchezza”. E ora chi vi potrà salvare? “L’Italia”, fa lui, sorridendo. Stai fresco nuovo amico: una faccia, stessa crisi. E una risata ci seppellirà tutti insieme. Meglio ammirare questi castelli d’altri tempi di dame e cavalieri.
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