25 luglio 2011 Pilos – Corone 30 miglia
vento da ovest sui 30 nodi con raffiche di catabico (vento da terra, da kato, giù) a 40 nodi.
A poche miglia da Pilos e dalle suggestioni di Nestore e dalla strage di Navarino, sorge Modon, Methoni in greco. Un castello. Una meraviglia che s’allunga sul mare a mezzogiorno con un molo che finisce in una torre ottagonale dal tetto rotondo che ricorda vagamente una moschea. La sentinella di pietra è una creazione dei turchi a chiudere e difendere la baia che un tempo ospitava decine di galee. Arrotondata e nello stesso tempo irta, questa sentinella di pietra guarda il baluardo che fa da testuggine del castello che fu bizantino e veneziano per secoli fin dal 1204, l’anno del sacco di Costantinopoli da parte dei “crociati” capitanati da Enrico Dandolo. Modone è uno dei due occhi della repubblica, con Corone formava una coppia possente e accogliente per le navi che puntavano verso Creta o l’Italia. Due occhi spalancati alla fine della penisola della Messenia, vigilavano.
Ripresa da Morosini nel 1686, Modone fu ripersa da Venezia con la seconda guerra di Morea con tutto il resto di questo regno effimero. Ma ancora oggi porta orgogliosa i segni di questo passato, decine di leoni costellano mura e baluardi, rondelle e torrioni che s’allungano com un corno verso la campagna. E sfiorando l’isola di Sapienza arrivando dal mare ne scorgo un altro, lassù, sulla torre. Ma non è tempo di nuove esplorazioni, un bagno nell’acqua trasparente e increspata dal vento che monta fuori e si riparte, Corone ci aspetta.
Saranno una ventina di miglia di mare e di onda, navigati soprattuto di lasco. Si balla, si lavora, si evita di andare sotto per non finire sottosopra. Doppiando capo Gallo si comincia a cercare con lo sguardo la fortezza, ma è ancora lontana. Poi si profila, bastioni alti dieci quindici metri, a strapiombo, e le mura a correre intorno. E’ uno spettacolo vederla dal mare, la dimensione più giusta per apprezzarne la forza. Ancoriamo nella baietta di fronte al villaggio di case bianche basse e finestre colorate, il molo antico lo stanno armando di nuovo di difese dalle acque ma è ancora inutile, troppo vicino alle scogliere. Il vento s’attenua solo alla sera, stiamo in barca, protetti ed esposti alla natura nello stesso tempo.
Mi piace questa dimensione, anche se sono un po’ goffo, quest’isola diventa presto la mia casa. Dormo da Dio e mi alzo all’alba, mi culla e mi dà energia. Arina inizia a piacermi, con le barche è un po’ come per gli umani, bisogna annusarsi per capirsi e trovarsi. Provare, affidarsi. E’ solida ma filante, comandi essenziali, senza avvolgi-troppo, respira bene al vento e la senti che vibra con le dita e i piedi. Ha una sua personalità, non indugia troppo sulla coperta all’ozio (e questo è un male, perché dormire da quelle parti è bello) ma sottocoperta t’accoglie bene, anche in sei, anche nelle cuccette che sembrano un po’ abitacoli da Soyuz. E poi va anche oltre i suoi limiti, che dovrebbero essere 7-8 nodi, rimonta il vento. Ma quella sera soprattutto eravamo a posto.
26 Luglio 2011 Corone – Porto Quaglio (o Caio, Kayio in greco) Mani, 35 miglia, vento da Sud Ovest e Ponente, meno onda. Doppiato capo Matapan senza problemi.
Alba (più o meno) in fortezza ad aspettare che apra. Il paese è incantevole, silenzioso e ancora assonnato. Esploriamo il posto veneziano, chiese e segni ancora di edifici militari. Restauri forse un po’ affrettati, ma la vista che disegnano le mura è da mozzare il respiro. Non mi stanco di gettare lo sguardo in quel mare che s’apre verso il nostro obiettivo, Gambousa, Grabusa o Granbusa per i veneziani, l’ultimo scoglio della Serenissima.
Torniamo dopo uno stand up finalmente breve (solo 4 prove) e col caldo che inizia a mordere. Ci accoglie la delegazione al gran completo del comune di Khitera: il sindaco Thodoros Koukoullis (un signore distinto con occhiali e baffetto, che parla un buon inglese ed è innamorato della sua terra), il vice Nikolaos Megalokonomos, il presidente del consiglio Lazaros Vezos. Il lavoro di Marco Polo System e il tam tam della rete hanno acceso molto interesse in questi lidi per la nostra avventura. Un giornalista locale, fotografa l’incontro, ma anche a Creta già si parla di noi su stampa e tv. Noi però siamo alle prese con l’ora e l’adesso, sempre poco tempo e molto da registrare, capire, documentare. E’ quasi un impegno morale nei confronti di gente e luoghi che ci rapiscono, vogliamo raccontarli al meglio, trasmettere l’entusiasmo che ci danno. “Khitera era un altro occhio della Repubblica, grazie a Venezia è arrivata la cultura e la prosperità – racconta il sindaco – moltissimo ci lega ancora a voi, anche nella vita di ogni giorno, nella cucina (c’è un pasticcio alla veneziana che cucinano solo le nostre donne, in casa, non è cosa per turisti) e nelle parole che utilizziamo ogni giorno . La vita è ancora serena, anche se è ogni giorno più difficile. Amministrare 66 villaggi sparsi per un territorio grande come Malta non è facile, e Atene ci ha tagliato i fondi alla metà. E dobbiamo amministrare anche Anti Khitera, 30 abitanti, l’isoletta qui vicino. Ma ce la faremo a superare anche questa”. Ci regalano una medaglia ricordo e una storia su Afrodite un po’ … partigiana: “Qui è nata la dea, celeste e urania”, fa il sindaco facendo intendere che era ancora illibata.”Poi è andata a Cipro e per mare ed è diventata di tutti”. E ha fatto bene a molti.
Dopo l’incontro ufficiale rompete le righe con bagno da ricordare e nuotata fino al canyon sotto la fortezza, spiaggia di ciottoli a scaldarti le membra stanche. Il ritorno è duro, ma in barca c’è una sorpresa: ci è venuto a trovare Byron Da Ponte, 85 anni, l’ultimo erede di una famiglia di serenissima schiatta: “Noi facevamo i ponti di Venezia, da questo lavoro deriva il nostro nome. Qui ci stabilimmo secoli fa – spiega questo signore distinto ed energico che sale in barca di slancio e racconta in un italiano forbito e appena toccato dall’accento greco – e anche nelle isole e a Creta. Vantiamo un doge, Antonio, eletto alla metà del 1500. Vedi questo è il suo simbolo”. Uno scudo con un ponte in rilievo che ritroveremo anche a Grambusa. Byron racconta, sembra un’enciclopedia vivente.
La sua memoria affonda e risale nei secoli quasi seguendo la vitalità che nel pomeriggio ci porterà a scoprire con lui un altro gioiello veneziano di Cerigo, il castello di Mesopotamos, che sta in un borgo antico quasi al centro dell’isola perso tra ulivi e cicale. Un leone orgoglioso sormonta l’entrata del forte che in alcuni punti ha le mura incorporate da case. Sotto stanno due stemmi, si dice del signore franco che sposò una dama veneziana dando il La alla presenza serenissima. I numeri romani riportano una data: 1515. “I miei compatrioti di qui, quando la Repubblica cadde nel 1797, erano pronti a ospitare il governo veneziano in esilio, le sette isole dello Ionio potevano servire da riscossa contro gli invasori francesi, in molti si ribellarono a quella fine ingloriosa e qui i francesi non vennero mai come i turchi. Gli inglesi sì, fummo loro protettorato per anni, fino all’indipendenza nel 1864″.
Byron prima ci aveva portato a casa sua a Chora, scaletta e atrio sfolgorante di fiori, una piccola chiesa a impreziosirlo, a vedere lo scudo di marco di famiglia in fregio. Poi la galoppata con la sua auto un po’ scassata verso questo villaggio dimenticato. Mesopotamos è un incanto e un mistero. Ma, sopratutto, un testimone di una vita dura e agreste, quella di secoli fa. “Quella è la cisterna dove si portava l’uva da pestare, e qui, in questa canaletta, scorreva il vino che andava a finire nelle botti – racconta questo gran signore che un tempo (1975) è stato anche sindaco di Cerigo, e per 12 anni – là si mettevano le bestie o c’erano i depositi degli alimenti”, svela entrando negli scheletri di queste vecchie case sorprendentemente piccole. Lui sale le scale pericolanti con agilità che ci spiazza e racconta, racconta come un aedo della sua vita, della vita di questo posto, della Venezia che vide e sogna. Un libro servirebbe solo per lui.
Calma piatta per il balzo finale dopo una notte passata al lavoro per lanciare il video nel blog. Pido ha fatto le sei, io le 4 (sono più vecchio). Gli altri salpano senza di noi, cadaveri in cuccetta. Mi sveglio alle 10,30, c’è Anti Kithera che sfila vicino, un leone spelacchiato acquattato. Trenta anime ci vivono, cento d’estate. Che posto perso. Qui hanno trovato una nave antica, naufragata malgrado un astrolabio che pare fosse stata una meraviglia da computer.
Due isole iniziano a profilarsi all’orizzonte, Agria (selvaggia) e Imeri (mansueta) Gramvousa. La fortezza è sulla seconda ma non si vede, mimetizzata, rocce su rocce. Ma esiste ancora? E se fosse definitivamente crollata? Persa come tante altre? Beffa, beffa. Scongiuri, ma c’è! Ecco una torretta e le linee delle mura che seguono magistralmente la linea del promontorio inerpicandosi alla fine di una scogliera che toglie il fiato. La vedremo al tramonto io e Pido, dopo esserci inerpicati come muli mediatici. Ma prima c’è da ormeggiare in una baietta dove l’acqua è trasparente e spunta un relitto di una vecchia nave che portava cemento chissà dove. I barconi dei turisti stanno al molo, noi indugiamo aspettando che se ne vadano. La fortezza progettata da Latino Orsini e realizzata nel 1584 da 100 muratori, altrettanti spezzamonti, 300 angarici (contadini angariati) 400 galeotti, poteva aspettare. Prima c’era il bagno esploratore al relitto pare di una nave libanese naufragata nel 1981 a due passi dalla spiaggia di Kalyviani.
L’elica di bronzo è ancora sommersa, la poppa spezzata affonda. Alle cinque de la tarde i turisti se ne vanno e possiamo affrontare la scalata dopo un ormeggio al volo non proprio perfetto visto che mi ha visto protagonista. Appesantiti da zaino e cavalletto iniziamo la scalata, novelli Don Chisciotte e Sancho Panza (chi sono io?). Incrociamo prima Robinson, un greco dall’ampia pancia, jeans corti e bastone che si muove come il padrone dell’isola, e poi Billy the Kid, giovinastro con fucile in spalla che poi vedremo in azione a impallinare conigli selvatici, con le capre gli unici mammiferi dell’isola. La salita è impervia, in mezz’ora però sei in cima. Un contrafforte protegge l’entrata restaurata, prima però c’è il leone: è in marmo, potente, in rilievo, due zampe rubate, la criniera che gli scende sul patto, il muso che ti guarda a fauci spalancate, i canini a mostrare piglio guerriero, gli occhi vuoti che ti guardano per sempre da terra, abbandonato. Forse avevano tentato di rubarlo, e sono riusciti solo a toglierlo da sopra l’arco del portone d’ingresso. Uno scudo con un ponte in rilievo gli sta a fianco, il mozzicone di una zampa forse lo teneva lassù. Entriamo e ci perdiamo nell’ampio pianoro. Case e caserme non esistono più, solo una chiesa mezza diroccata rompe la spianata che un tempo ospitava soldati e poi anche pirati. I veneziani l’abbandonarono nel 1692 o forse più tardi, nel 1715, insieme a Suda e Spinalonga, gli altri ultimi scogli della Serenissima. Ma questo era il più selvaggio e perso, l’ultimo approdo possibile prima di finire in Libia. Se perdevi il vento o non riuscivi a stringere abbastanza sul Meltemi, saresti andato dritto in Africa.
Il giorno dopo avremmo vissuto l’ultima galoppata verso Kastelli – Kissamous, 8 miglia di bel vento per doppiare capo Buso con qualche fatica (troppa onda) e la voglia di arrivare a terra prima della festa di benvenuto. Ma ora c’era da vivere questo baluardo assurdo. I tartari non sarebbero mai arrivati fin qui dove i veneziani sfidarono la natura e la noia con un’opera che sembra impossibile. Segui le mura di pietre grigie che virano anche al blu, legate insieme da calce e da un fregio, e arrivi dove il salto è nel vuoto. Ti attira. Ti vuole. Laggiù, cento metri più sotto, il mare muggisce, le onde si frangono sulle rocce. Il vento riempie il cielo e ogni tanto raffica per ghermirci. Solo due falchi ci fanno compagnia. Il sole lentamente tramonta sul mare. Il buio non ci può cogliere lassù. Ci muoviamo per scendere verso Arina, la nostra barca. L’ultimo scoglio della Serenissima torna nell’oblio.
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